Albania, Alleanza per lo Sviluppo e la Valorizzazione dell’Agricoltura familiare del Nord Albania

IL SUCCO DI FRUTTA PIÙ BUONO

Il racconto di Elena Zurli, partita a novembre per l’Albania con il Servizio Civile Nazionale.

Scutari, 08 marzo 2018

Sono ormai passati tre mesi dal mio arrivo nella terra delle aquile. Prima di tutto vale sempre la regola, che ho ormai brevettato dopo aver vissuto in tre stati diversi negli ultimi 5 anni: di questo posto non ho ancora capito nulla e più passa il tempo più la mia visione d’insieme si complica. È proprio questa complessità che mi sta permettendo di scoprire ed imparare molte cose in questi mesi. L’ultima di queste scoperte è che il succo di frutta all’albicocca è ancora più buono se con qualche goccia di pioggia dentro. Ho studiato economia agroalimentare in Germania e la combinazione del mio percorso di studi e del paese in cui ho scelto di svolgerlo, più qualche problema sviluppato nel frattempo alle mie poveri reni, mi hanno velocemente portato ad abbandonare il consumo di carne e di succhi di frutta dal cartone. Non immaginavo che il mio arrivo in Albania avrebbe cancellato, così rapidamente, ogni mio buon intento di continuare sul mio “riduzionismo carnivoro” e sull’addio agli zuccheri semplici. E invece..

Lavorare nell’Albania del Nord è tosto. Ci sono persone che decidono di fare queste esperienze in posti più lontani, ameni o esotici dell’Albania e in quei casi ci si trova davanti qualcuno che è immediatamente percepibile come diverso da noi: vuoi per la lingua, per i costumi, per il colore della pelle, per le ore di luce e di buio diverse da quelle a cui siamo abituati. Invece io ho scelto Scutari, Albania del Nord, e gli albanesi sembrano uguali a me, parlano un italiano tutto sommato decente e bevono il caffè migliore dei Balcani (e ne ho provati tanti, ma questo sì, si avvicina veramente a quello italiano). Pian piano sto invece realizzando che di cose diverse ce ne sono tante, eccome se ce ne sono, e che lavorare in un progetto sullo sviluppo dell’allevamento familiare, in una zona ormai trascurata dalle ONG e dallo Stato Albanese, è una bella sfida. Aggiungendo a tutto questo il dettaglio di essere donna, con poca passione per la carne e ancora meno esperienza di allevamento, rende questa sfida ancora più difficile.

Tra gli allevatori che elevano il livello della sfida, c’è P.

P. è un simpatico pastore che potrebbe avere circa 50 anni e poco più di 60 capre. Dico potrebbe perché è molto difficile dare un’età alle persone nelle zone di montagna. Hanno i volti e le mani consumate, che dimostrano sempre qualche anno in più rispetto al dato anagrafico. Tramite il
nostro progetto P. ha vinto un piccolo finanziamento che gli consente di ricostruire la sua stalla per poi ampliare il gregge.

P. si distingue dagli altri allevatori per le vette di decibel che riesce a raggiungere parlando e per il numero di visite non pianificate al nostro sportello di progetto. Quando apro le finestre del mio ufficio riesco a capire subito come proseguirà la giornata a seconda del fatto che senta o meno la sua voce che proviene dal bar di fronte.
P. gira per Vau Dejes con un motorino che avrà sicuramente il doppio dei miei anni e al quale manca la sella, problematica che è stata accomodata legando con del nastro adesivo svariati pezzi di cartone l’uno all’altro. Le scarpe rotte ma eleganti e una giacca consumata dal tempo. Nonostante le risorse limitate, i nostri allevatori arrivano ai nostri uffici sempre con il loro vestito migliore.

Purtroppo far partire i lavori di ristrutturazione della stalla di P. ha richiesto molto più tempo del previsto, vuoi per l’arenarsi di alcuni permessi nel farraginoso vortice dell’amministrazione locale, vuoi per la mancanza di alcuni documenti sulla proprietà del terreno del nostro amico.
Far capire al nostro allevatore che questo ritardo non dipendeva da noi ma da fattori esterni, non è stato facile. Ho assistito a cascate di telefonate, urla, interruzioni in ufficio, appostamenti al bar di fronte all’ufficio e incursioni giornaliere presso gli uffici dell’amministrazione locale. Insomma, un simpatico signore, ma testardo, molto testardo, e poco paziente, molto poco paziente.

Come vi ho anticipato, la marginalità geografica dei villaggi di Vau Dejes, Puka e Fushe Arrez ha reso queste realtà non solo difficilmente accessibili, ma ha anche contribuito a farle lentamente scomparire dall’attenzione pubblica e governativa. Piccole oasi tra le montagne in cui, nonostante le promesse, nulla cambia da anni.
La sfiducia verso le istituzioni è tanta, e la sfiducia verso di noi, almeno all’inizio, non era da meno. I miei colleghi, che sono qua da ben prima di me, mi dicono che ci sono voluti anni per portare gli allevatori a fidarsi di noi, a fidarsi del nostro impegno e dell’autenticità delle nostre intenzioni.
Il ritardo nei lavori di P., per noi, non era solo questione di deludere uno dei nostri beneficiari, ma poteva minare in un solo colpo la credibilità e fiducia faticosamente costruite. Perdere la fiducia di uno, equivale a perdere la fiducia di tutti: “Eccoli, RTM, anche loro”.

Ci siamo attivati presso ingegneri, geometri, avvocati, professionisti di ogni tipo, mentre tentavamo di tenere “buono” il nostro P. Così un giorno, dopo svariati mesi, arriva la telefonata dall’ufficio di urbanistica della municipalità, i documenti sono pronti. Senza nemmeno fare in tempo a prendere in mano il cellulare e chiamare P. che, eccolo, ha già salito le scale ed è di fronte al nostro ufficio. Fuori piove a dirotto, lui ovviamente avendo solo il motorino con cui muoversi si è fatto 40 minuti
sotto la pioggia per raggiungerci e ringraziarci.

Ovviamente non vuole sentire storie, bisogna festeggiare. Con una certa resistenza dei miei colleghi uomini, riesce a trascinarli al bar, rakia (la “grappa nazionale”) d’obbligo. Insiste un po’ anche con me, alzando il volume, sorridendo e quasi tirandomi per la mano. Ma io ho una cosa abbastanza pressante da finire, nulla da fare. Sgrida il mio collega affinché lui mi convinca, io gli dico che mi dispiace molto e che comunque non riesco a bere più di un caffè al giorno. Ancora nulla, allora P. si rassegna, mi stringe forte la mano un’ultima volta per ringraziarmi e si porta via con sé il resto dell’ufficio. Soddisfatta, inizio a continuare con l’archiviazione di alcuni documenti in un’altra stanza. Dopo circa mezzoretta torno nel mio ufficio.

Vicino al mio PC trovo due, non uno, bicchieri di succo di frutta. Bicchieri piuttosto bagnati. Di sicuro provengo da qualche bar qui vicino.
“P. ha insistito a portarti il succo di frutta perché dice che sei stata molto brava e che ti rispetta molto”. Io in realtà, ho fatto poco o nulla per il suo caso, se non assistere come potevo i miei colleghi albanesi.
Sorrido, e niente, penso di non aver mai trasgredito a una delle mie regole alimentari con tanta gioia. Ovviamente, ora ho ripreso con gioia e moderazione a bere succhi di frutta..

Elena
Volontaria RTM in Servizio Civile in Albania

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